giovedì 8 maggio 2014

PERE LACHAISE - RACCONTI DALLE TOMBE DI PARIGI (SECONDA)






Mi è parso, ma potrei sbagliare, anche se ho davvero la sensazione di no, che dentro questa antologia ci siano righe scritte col cuore. Il che, per quanto mi riguarda, è parecchio, anche se non tutto. Il resto, ovviamente, è che le righe, oltre che scritte col cuore, siano scritte bene.

Ed anche in questo caso, se si escludono le mie, scritte un po’ per istinto, un po’ per amore della musicalità, mi è parso che ci fossero, qui e là righe che vale la pena di leggere, e di ricordare.

Parlare di un’antologia è sempre un impegno rischioso. Se si parla del proprio lavoro si rischia di passare per egocentrici e per autoreferenziali. Peggio mi sento se si parla del lavoro degli altri. In un’antologia che raccoglie più di venti racconti, con che criterio scegliere? Perché parlare di uno piuttosto che di un altro?

Perché mi piace, direte. Eh, magari fosse così facile. Dietro un’antologia si avviluppa una rete di relazioni e di rapporti, corrispondenze di amorosi sensi, scambi di suggestioni e di idee che rendono davvero difficile prendere una posizione – quantomeno – pubblica.

La verità è che Pere Lachaise - Racconti dalle tombe di Parigi, una raccolta di scrittori italiani edita da Ratio et revelatio, una editrice rumena, è davvero un’idea fichissima, lo posso dire?
Si commenterà che non vale, visto che ci ho scritto. Un po', è vero. Ma solo un po'.
Perché mè parso, fin da quando Laura Liberale me ne parlò per la prima volta, che parlare di un cimitero e – quindi – fermarsi a riflettere sulla morte, fosse una azione che ha un profondo valore culturale, in un’era priva di memoria e profondamente dimentica del senso delle cose.

O meglio ancora, dimentica ed incapace di chiedere alle cose di rivelare il proprio senso.

Ecco allora che scrivere un racconto guardando una lapide, e cercando in un qualche modo di farsi rivelare il senso che sta dall’altra parte è un’impresa che mi ha fin da subito coinvolto e appassionato.

Laura è così. E' capace di perseguire l'impresa con una determinazione insieme mistica e guerriera che me la fa pensare, nella mia immaginazione, un po' Eva Kant, un po' Giovanna d'Arco. E con la stessa mistica ostinazione ha raccolto, editato, rotto le scatole, riscritto, ripensato. Mica da tutti, ma non ne ho mai dubitato.
Poi, ci sono state le sorprese, e la sorpresa più grande di tutti me l’ha data quello dal quale, più di tutti, ero preparato a farmi stupire. Il mio fratello di sangue sardo, e di letteratura: Francesco Frisco Abate.

Ci accomuna, forse, il fatalismo proprio della gente dell’isola. Ma ancor di più, ne sono certo, ci accomuna un’esperienza che condividiamo con milioni di persone nel mondo, e che non pretendo essere speciale, se non per il semplice fatto che è la mia: l’esperienza del proprio non essere eterni, dell’avere sperimentato, per così dire, il proprio essere a termine.

L’aver contato, scanditi dal suono di un un bip di un monitor della frequenza cardiaca, i secondi lunghi della notte, soprattutto quelli delle ore del lupo. Le ore piccole, che si chiamano così perché sono composte di poche lettere, una, due, tre, ma anche perché sono riempite di poche cose, per chi è sveglio. In certi casi che sono quelli a cui alludo, soprattutto di silenzio e di attesa.

Non ho scritto questo per guadagnare la facile solidarietà che si tributa in questi casi.

L’ho scritto per dire che la pacatezza disincantata – quasi il senso di necessità, starei per dire – con la quale Francesco, nel suo racconto “Sex toy” ha raccontato quel buco lievemente sfuocato che si apre sulla superficie della realtà nel posto dove prima c’era un amico, un uomo, una amante, qualcuno a cui abbiamo voluto bene e ora non c’è più… beh, credo che mi basti e mi avanzi come premio per avere scritto poche pagine, di certo non le più belle, di questa antologia.

L’ho voluto dire, perché Francesco sa quando sia schivo e refrattario ai complimenti gratuiti, e sa che non li farei mai, se non venissero dal cuore.

Ma ovviamente – pur nella consapevolezza della propria, artigianale pochezza – un pezzettino di cuore l’ho lasciato anche appoggiato sul mio “Voilà, Mr. Mojo Risin’”, nel quale mi sono spericolatamente concesso di scrivere di Jim Morrison, come se non fossi solamente l’ultimo dei tanti postulanti che tentano improvvidamente di vivere di luce riflessa da tanto genio.

Però sono abbastanza contento di avere scritto questo raccontino, perché mi è riuscito di dire una cosa che forse pare banale, ma a guardare il panorama musicale odierno – martoriato da Marie e da bambocci da reality - forse così tanto banale non è: che allora, in mezzo alle sette note, o officiando il rito delle dodici battute, i musicisti cercavano qualcosa, una chiave di volta, una spiegazione per il vuoto. Una rotta verso il tutto o verso il nulla, indifferentemente.

Mi è riuscito a dire qualcosa di cui sono orgoglioso. Che ho conosciuto una musica, e gente che la faceva, il cui tema non era – o non era solamente – lo show business, ma il sogno.


Fosse esso sogno di libertà, di infinito, di giustizia.

Sogno, e non illusione.

Sogno, perché si credeva di poterlo realizzare.

E, non so voi, ma ho trovato bellissimo potere affermare tutto questo di fronte alla lapide di una tomba. Forse, per lo stesso motivo per cui ho amato il racconto di Francesco. Che voglio prendere come esempio di tutti gli altri, che ho amato, e che poco alla volta, racconterò.



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