giovedì 10 luglio 2014

DOVE SE N'E' ANDATO ELMER? UN PAIO DI OSSERVAZIONI SU THE LEFTOVERS



Praticamente quelli che restano, e gli tocca di vivere, si sentono la seconda scelta.
Secondo una idea ben radicata nella escatologia di alcune chiese protestanti, gli eletti vengono chiamati al Padre prima che inizi il giudizio universale.




In The Leftovers, la nuova serie HBO ideata da Damon Lindelof in collaborazione con Tom Perrotta, autore del romanzo “Svaniti nel nulla” a cui è ispirata, un bel giorno, senza preavviso, spiegazioni e senza colpo ferire il 2% della popolazione mondiale sparisce.
E va bene. 
O meglio, va male, ma sono disposto a scommettere con chiunque abbia voglia di farlo che non sapremo mai esattamente perché siano spariti.
Siamo dalle parti di Lost, sia perché Damon Lindelof è sceneggiatore e producer della serie dell’isola, assieme a J.J. Abrams, sia perché lo schema mi pare ormai accertato e riprodotto più volte.



Si crea, attraverso un evento traumatico, una condizione circoscritta e costretta, si mettono le storie individuali in condizione di stress estremo, costringendo i conflitti ad esplodere: poi si usano quelle esplosioni per indagare nel passato dei personaggi, per verticalizzare e rendere trend narrativo quelle storie che in gergo sono chiamate storie orizzontali, cioè quelle che solitamente si dipanano nell’arco di una sola serata.
In Lost, tutto questo avveniva attraverso una tecnica consolidata e facilmente replicabile: ogni puntata uno dei personaggi veniva a proscenio e i flashback (veri, presunti, pescati da linee temporali alternative o da possibili sliding doors) fornivano benzina all’empatia del pubblico e cementavano la passione dello spettatore per i suoi drammi.
In definitiva, in Lost non era essenziale, nonostante lo sembrasse nelle premesse, scoprire cosa fosse successo veramente. 
L’essenziale era prolungare in eterno, fino all’esasperazione, fino allo sfinimento, questo senso straniante di esistenze deragliate, e che proprio perché costrette a camminare al di fuori dei binari tranquillizzanti delle convenzioni sociali (spesso questo essere fuori dal patto sociale era già un dato di fatto, e il naufragio sull'isola si limitava a sancirlo...), l'essenziale era che quelle esistenze divenissero capaci di scorticarsi, di arrivare all’essenza, di parlare  di grandi tematiche universali
Vita, morte, sogno, ideale.


Non a caso ci sono tanti personaggi con cognomi di filosofi, in Lost, da John Locke a Danielle Rousseau a Goodwin a Desmond David Hume a  Mikhail Bakunin a Boone Carlyle. 
Gli ideatori non hanno resistito alla tentazione della crittografia e ci hanno dichiarato l’intento di costringere poveri personaggi pescati dalla vita di tutti i giorni a guardare, ora l’uno ora l’altro, “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.

Ma non mi pare che avere giocato a portare i personaggi allo stremo della loro resistenza etica e filosofica sia una colpa da imputare ai creatori di Lost, anzi.
Semmai, a voler esprimere una critica, la delusione con la quale abbiamo assistito alla conclusione della serie nasce proprio dalla considerazione diametralmente opposta: dal fatto che i creatori si sono persi nel labirinto che loro stessi avevano creato, ed hanno  preteso di uscirne, come nella tradizione del teatro antico, col deus ex machina.
La colpa, mi pare, è averci dato una risposta semplicistica, un po’ buonista e del tutto insoddisfacente all’angoscia esistenziale che trasudavano i personaggi più affascinanti della serie.
Ecco perché sono disposto a scommettere denaro sul fatto che stavolta non sapremo mai dove sono finiti quel 2% di eletti, o di rapiti, che un giorno qualunque di un anno qualunque sono stati strappati ai loro cari per dare i moventi alla nuova serie per gli amanti delle angosce metropolitano/esistenziali.

Io sono tra quelli. 
E credo che questo mi metta al sicuro dal sospetto che in queste parole ci sia ironia.
Mi ha affascinato la cappa di nichilismo sotto la quale si agitano inutilmente, come criceti nella ruota, i personaggi di The leftovers.




Che in fondo, si fanno le stesse domande che si fa ciascuno di noi, di fronte ad una lapide teneramente amata:


Dove se n'è andato Elmer
che di febbre si lasciò morire
cov'è Herman bruciato in miniera.
Dove sono Bert e Tom,
il primo ucciso in una rissa
e l'altro che uscì già morto di galera.
E cosa ne sarà di Charley
che cadde mentre lavorava
e dal ponte volò e volò sulla strada.
Dormono, dormono sulla collina
Dormono, dormono sulla collina.


Al netto dei germogli di storie personali, che sono certo si preparino ad esplodere, e che costituiranno il piatto forte della serie, la prima puntata è scandita da due elementi diametralmente opposti, che però finiscono per integrarsi perfettamente. 
Da una parte una commissione di saggi, nominata ovviamente dal congresso americano, si scorna nel tentativo di spiegare.
Sacerdoti e preti di ogni credo hanno una loro spiegazione trascendente, salvo che naturalmente per ognuno la trascendenza è un'esclusiva .
Gli scienziati e i materialisti, se possibile ancor più dogmatici, hanno una sola risposta possibile ad un evento non inquadrabile.
E quella risposta - "Non lo so" – li espone all’ironia della stampa e del giornalismo televisivo. 
Che come sempre è rappresentato come giudice capriccioso e arrogante, ed anche un tantino ignorante, che non riesce a far di meglio che compilare le liste dei vip spariti in mezzo a quel 2% di popolazione mondiale di cui si sono perse le tracce.

Il secondo filone è rappresentato dai due modi di rapportarsi all’evento traumatico.
Dopo tre anni dalla scomparsa una parte dei cittadini, pasciuti di ottimismo stelle e strisce e di retorica sul grande paese delle occasioni, cerca di buttarsi tutto alle spalle inaugurando monumenti, leggendo file chilometriche di nomi di vittime e facendo garrire bandiere degli States.
C’è un gruppo, però, potremmo dire gli irriducibili dell’angoscia, i massimalisti della domanda esistenziale, che hanno creduto di leggere in quelle sparizioni una preconizzazione dell’assoluta inutilità della vita umana e del rito sociale, ed hanno agito di conseguenza.
Vivono in comuni dall’assetto monastico, vestono di bianco, fumano compulsivamente - che tanto prima o poi si muore comunque - ed hanno deciso di non parlare più, comunicando con messaggi scritti su taccuini.
Verrebbe da pensare che si stiano privando di tutto quel che vale la pena di amare, per soffrire meno quando saranno costretti a farlo. O peggio ancora, quando saranno costretti a chiedersi il perché di quella privazione.
Incarnano, per così dire, l’angoscia dell’assenza di una domanda (che è molto, molto peggio dell’assenza di una risposta).
Questi professionisti dell’autodafè si presenteranno alla celebrazione organizzata per i 3 anni dal giorno della sparizione, tutti vestiti di bianco, silenziosi, ed innalzeranno uno striscione con su scritto: SMETTETELA DI SPRECARE IL FIATO!


Come dire: "Perché perdete tempo ad affermare che va tutto bene, che si riparte, che c’è sempre una buona risposta per tutto ed una nuova giornata di sole dopo la tempesta?"
Ovviamente, troppo per i buoni cittadini americani, stressati e portati all’estremo del conflitto, che non sopporteranno la provocazione e li riempiranno di botte.

Tutto questo mi ha ricordato una poesia di Giovanni Pascoli, "I due fanciulli". 
I due bambini stanno giocando, e al tramonto, in una pausa del gioco, e


Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de' tigli,
tra lor parole grandi più di loro.


Si prendono a botte insomma, si fanno del male. E lividi, vengono spediti a letto. Ed ecco l'intuizione che fa di un poeta un artista.

A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano
il calpestìo dell'altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.

La paura del buio, che sembra essere nelle intenzioni di Giovanni Pascoli l'immagine metaforica della morte, si sovrappone al litigio dei due piccolini, e li spinge ad abbracciarsi. In quell'abbraccio silenzioso, nella notte, c'è la disperazione della condizione umana e contemporaneamente l'intuizione dell'assurdità della guerra e del conflitto.

Torniamo a The Leftovers, dove la verità sembra essere nascosta in una immagine quasi buttata là. Inquadrata di passaggio. 
Una scritta, uno slogan. 
Ma denso,oh, se denso: We are living reminders.
Noi siamo dei ricordi viventi.




Non sembra poco, e mi sento di azzardare che sia profondamente vero, se per ricordi viventi si intende che siamo in definitiva la somma di un passato, di un’esperienza, di un desiderio che ha radici lontane, e che non si risolve se non affrontando grandi domande di fondo.
La domanda allora è: c’è davvero bisogno di un evento traumatico per costringerci ad aprire gli occhi e guardare la sostanza?
Sembrerebbe di sì.

L'ombra dell'11 Settembre è lì, appena allusa. Ma di certo incisa nell'anima dello spettatore americano. Ma c'è stato bisogno di due aerei contro il World Trade center, perchè l'America si facesse delle domande.
E si desse delle risposte, non mi pare sempre quelle giuste.

Ecco, credo che siamo arrivati al senso profondo di questo script.
La verità, se usciamo un attimo dalla metafora, è che stiamo diventando sempre meno capaci di interrogarci sul senso delle cose e ancor meno capaci di scandalizzarci veramente, scandalizzarci perché ci facciamo mettere in discussione da quel che ci avviene intorno.
Siamo incapaci di farci scandalizzare dalla verità, e la verità si incarna in cose semplici.
E intanto, intorno ci avvengono molte cose.
Sotto forma di razzi, di pulizie etniche, di prevaricazioni dei diritti umani, di schiavismi mascherati da mercati emergenti, di fondamentalismi. 
Potrei continuare.
Il fatto è che fino a che tutto questo non incide la carne, rimane solo benzina per indignazione da tastiera, che plachiamo firmando appelli seduti al computer.
E invece, il male di vivere, mi pare di poter dire, interroga personalmente ognuno di noi.
Ecco ancora Giovanni Pascoli, nel finale della sua poesia:

Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.


Come dire: il momento in cui pensate alla morte, ad un destino incomprensibile ed assurdo, al silenzio che vi avvolge, non vi basta per farti domande, non vi basta a capire che le nostre urla e i nostri ringhi di odio non sono altro che un rumore senza senso, il ronzio di un'ape dentro  un bugno vuoto? 

In sintesi: SMETTETELA DI SPRECARE IL FIATO!
Ecco, questo.

Eravamo partiti da The leftovers, mi si potrebbe obbiettare: si può dedurre tutto questo da una serie tv?
Mi pare di poter dire di sì.
Lo sconcerto di quelle sparizioni di quel 2% di affetti e di relazioni spariti, e insieme l’angoscia della domanda: e se quelli che ci sono stati strappati fossero davvero i prescelti? Se fossimo rimasti fuori a contemplare un compimento di tutto che è riservato solo ad altri?
Insomma: se il senso che abbiamo sperato che prima o poi ci venga rivelato, ci fosse negato?
Mi pare che l’angoscia sottile che sottende la serie nasca qui.
Ma – e qui entra in gioco il narratore – mi sembra anche che risolverla sia un autogol, che disinneschi delle potenzialità infinite e che, peggio ancora costringa, come è successo per Lost, a risposte cerchiobottiste e quindi banali e deludenti.

Ed anche per questo, sono quasi sicuro  che non sapremo mai dove è finito quel 2% della popolazione sparito in un giorno qualunque di un anno qualunque. 
Senza alcun preavviso.
 

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