lunedì 16 febbraio 2015

IL TALENTO DI MISTER ANDREW, ovvero WHIPLASH: TEMPI DISPARI E SASSOLINI NELLE SCARPE




“Ma nella musica, chi decide chi è bravo? Non è una cosa soggettiva?”
“No.”

Siamo all’incirca al minuto trenta di Whiplash, un piccolo delizioso film sul jazz di Damien Chazelle che ha trionfato al Sundance festival, e sullo schermo del cinema fiorisce questa battuta.
Anche il contesto in cui sboccia, una soffocante riunione di famiglia, è un contesto significativo.
Nel film, una piccola storia di formazione che ruota attorno al rapporto allievo maestro in un conservatorio dove si insegna musica jazz, il protagonista Andrew Neimann, che  è l’allievo (ben messo in scena da Miles Teller), è a pranzo con la famiglia, e deve subire – come milioni di altre volte nelle riunioni di famiglia, intuiamo - la santificazione dei due cugini, che stanno riscuotendo successo in campi più accettabili e riconosciuti: l’uno è campione di rugby in terza divisione, pensa un po’, l’altro ha ottenuto una borsa di studio come ricercatore universitario.
Insomma, si sottintende in famiglia, ma nemmeno troppo, son ragazzi con la testa sulle spalle che si dedicano a cose importanti, e che non perdono tempo con le favole e i sogni, come invece fa il cugino Andrew, che frequenta una scuola nella quale si impara a suonare.
E a nulla vale protestare che la “scuola” è il conservatorio di New York, dove prendono i migliori, ed anche che lui è tra i più bravi del corso.
Perché per i suoi familiari, pratici esponenti della middle class americana ma in definitiva di qualsiasi posto del mondo, la musica è solamente un giochino, un passatempo, è il luna park del “secondo me” e del “a mio avviso”, “i gusti sono gusti” e via così luogocomunizzando…
…come troppe volte capita di ascoltare anche da noi, per esempio in questi tempi di Sanremo. Come se non ci fosse un criterio oggettivo di valutazione, come se il criterio del consenso generalizzato fosse un criterio definitivo.


Eppure, a sentire Anatole France,
Se un milione di persone crede in una stupidaggine, rimane una stupidaggine.

Beh, nel mondo moderno, ed in particolare nel mondo della musica, pare proprio di no.
Insomma, al minuto trenta di questo bel film (un piccolo film, girato con un piccolo budget, che toglie l’alibi dei soldi, dietro alla mancanza dei quali si trincera la poca voglia di azzardare italiana), nel bel mezzo di quel confronto familiare che dicevamo, esplode come un fuoco artificiale questo scambio di battute.

“Ma nella musica, chi decide chi è bravo? Non è una cosa soggettiva?”

Dice il cugino, quello socialmente realizzato, quello che fa il quarterback in una squadra di terza categoria ed è convinto di avere davanti uno sfigato che perde tempo a suonare le musichette.

“No.”

Risponde serafico Andrew Neimann, e in quel no c’è tutta la sua voglia di rivendicare una diversità, di proclamarsi di un’altra razza, magari emarginata, ma meglio così.


Perché no, Santoddio, la musica non è una cosa soggettiva.
No, Santoddio. Non si diventa musicisti andando a piangere da Maria o stonando su un palco televisivo.
No, Santoddio. E se una cosa così evidente bisogna anche spiegarla, beh…
L’unico che mi viene in mente, che abbia saputo dire bene questa cosa, questo atteggiamento (che se è snob, pazienza, di qualcosa si deve pur morire…) è Vasco Rossi, nella sua “Mi si escludeva”:

Mi ricordo che sì, si escludeva
per motivi che
oggi fanno solo ridere
mi ricordo che sì, si escludeva
per primi quelli che
facevano paura: chissà perché?!?
mi ricordo che sì, si escludeva
... sempre il più debole
mi ricordo che "non si voleva"
però neanche i più brutti come me......
E avanti così...
facciamo due comunità diverse
facciamo due comunità diverse
facciamo due comunità diverse!

Nel “no” con cui Andrew risponde alla domanda sciocca di suo cugino, c’è una dichiarazione di diversità del musicista, quello vero, che arriva giusta, che aspettavo da tempo.
E allora non posso fare a meno di esultare.
Finalmente, Santo Iddio. Finalmente qualcuno l’ha detto. Basta, con la dittatura dei numeri. Ci sono dei fatti oggettivi che quantificano e identificano il talento.
E c’è un prezzo da pagare, per seguirne i dettami.
Sì. Perché Whiplash è un film sul talento.
Sulla musica, ma, inevitabilmente, sul talento.
Che non è quella parola inglese, talent, che compone insieme a show la peggior jattura che la musica abbia dovuto sopportare dai tempi dei tamburi tribali.
No, il talento non è quello dei talent show.
E neanche quello del televoto.
O meglio, Whiplash è un film sulla fatica che pretende il talento. E non solo quello musicale.
Il titolo, Whiplash, viene da un brano di Hank Levy, universalmente riconosciuto come uno dei primi esempi di Jazz-rock, cioè di quel territorio di confine dove la musica colta ha cercato di mescolarsi con quella dei giovani e giungere a più ascoltatori possibile.
Riuscendoci, per un breve periodo.
Ed ecco che anche questo piccolo indizio ci dice che la domanda di fondo è come il talento si possa coniugare con l'essere popolare, percepibile, e alla portata di tutti.
Sfida interessante, e difficile da vincere.


Il talento, in questo piccolo film, è quella cosa bruciante che spinge Andrew a suonare la batteria finché non gli sanguinino le mani, che lo convince a rinunciare ad una storia d’amore, perché la vocazione a pestare i tamburi è troppo più grande, e non lascia posto per altro, nel cuore e nel cervello.
E’ una cosa imprevedibile, che ti prende e ti conduce altrove e di solito lo fa senza chiederti il permesso.
E invece, dice il professor Fletcher, magistralmente messo in scena da J. K. Simmons quasi con rassegnazione, ormai le aule del conservatorio sono invase da giovani dalle scarse motivazioni e dalla scarsa voglia di faticare, per diventare bravi.
E verrebbe da dire: professor Fletcher, venga a dare un’occhiata qui da noi.


Il burbero, quasi mefistofelico docente del conservatorio è il deuteragonista di questa storia. Il custode di soglia di un’arte che pretende tutto, un custode spietato e totalitario, senza mezze misure. Uno che assomiglia talmente tanto al sergente di Full metal jacket da chiamare uno dei suoi trombonisti “palla di lardo”. 



Lo odiamo, assieme ai suoi studenti, quando li porta alle lacrime insultandoli e minacciandoli. Lo disprezziamo quando fa scempio dei sogni di Andrew cacciandolo dal conservatorio.
Ma lo capiamo quando ci dice – e dice al suo allievo – che quella è la sua missione: ribadire, in un mondo in cui suonare e cantare è diventato l’optional, che l’arte, e il talento, sono dedizione, e fatica, e forse dolore.
E infine, lo adoriamo, il professor Fletcher, nella scena finale, in cui in uno sguardo solo passa dall’odio al rancore allo stupore ed infine all’amorevole riconoscimento di identità: alla consapevolezza di avere di fronte, finalmente, un altro musicista come lui.
E se di due comunità diverse si sta parlando, Fletcher e Andrew stanno nella stessa.


Ecco cos’è il talento di cui parla il film: qualcosa che si conquista e che pretende. Ma qualcosa che quando si è raggiunto, allora non lo devi più spiegare.

“Ma nella musica, chi decide chi è bravo? Non è una cosa soggettiva?”
“No.”


No che non lo è. Il talento è una cosa oggettiva, è una cosa tremendamente quantizzabile e verificabile, anche se generazioni di Carloconti (e molti altri prima di lui) ci vogliono convincere che alla fine volemose bene, tutto equivale a tutto, i gusti sono gusti, e ancora più alla fine, che se tanti milioni di mosche amano la cacca non possono essersi sbagliate.


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