lunedì 27 aprile 2015

LIKE AN HURRICANE, UNA STORIA DI TANTI ANNI FA

LIKE AN HURRICANE

Stavolta voglio raccontare di Mauro, che mi è piovuto in testa in un momento qualunque di una giornata qualsiasi, chissà da dove, e perché. Talmente piovuto che di lui non ricordo neanche il cognome.
Era una di quelle primavere percorse da troppa retorica e frasi fatte, come possono essere solo ad un certo punto della vita – a quel punto lì – una di quelle primavere fatte di fiori gialli e ormoni e brufoli. Sulle magliette portavamo le facce giovani di divi del rock, che allora giovani lo erano davvero.
Aspetta. Non lo so se è andata veramente così, se i particolari sono esattamente questi, se qui e là non ho ceduto alla tentazione di abbellire. Ma cosa importa? Questa è la storia come è riaffiorata da non-si-sa-dove, appesa ad una canzone di Neil Young…

…Once I thought I saw you in a crowded hazy bar,
dancing on the light from star to star...

…ma il succo c’è tutto.
Ok, va bene. Magari qualche cosetta qui e là l’ho aggiustata, ma è il ricordo, che fa questi scherzi, no?
E quindi.
Era una di quelle primavere fatte di sigarette fumate con rabbia, che senza preavviso si travestono da promessa d’estate, e ti fanno sussultare il cuore in gola. Sullo scalino della chiesa, Patrizia – anzi la, Patrizia, con l’articolo - suonava la chitarra. Era la fine di Aprile, e le rondini urlavano nel cielo e I bambini sembravano impazziti, mentre giocavano a calcio in strada e tiravano pallonate rumorose contro la saracinesca del garagista, che era la porta di un campo che si estendeva per traverso in via Marco Federici. Ma Patrizia suonava lo stesso, con quella sua chitarra con le corde di nylon. Conosceva solo La, Re, e Mi. Naturalmente maggiore, giro di La, o un’altra di quelle tonalità che non si deve imparare a fare il barrè.
Mi sarei chiesto, parecchi anni dopo, e continuo a chiedermelo anche adesso, senza miglior fortuna, se ci fosse una ragione precisa per cui in quella primavera l’aria, verso l’ora di cena avesse quel profumo deciso di futuro. Questa è solo una delle domande a cui ancora non so dare una risposta.
Ma ci sto lavorando.
Di certo, in quello scampolo di primavera che si spalancava sugli anni ottanta ci piaceva passeggiare, alla fine del pomeriggio, andando verso Via Chiodo e il lungomare, per fermarci a lungo davanti alle vetrine dei negozi di dischi a fissare e valutare le copertine dei vinili, come se quelli potessero suonare da dietro il cristallo e raccontarci le loro storie solo guardandoli.
Di certo eravamo convinti - e forse avevamo ragione, è adesso che abbiamo torto - che il rock and roll avrebbe cambiato il mondo. Altrettanto di certo, ci stavamo organizzando per capire come, lo avrebbe cambiato.
Per esempio, con le scale pentatoniche.
Eh, quelle sì.
Le pentatoniche. Ci misi un certo tempo capire che le dita non dovevano aggrapparsi alle corde come fossero pioli – appunto, di una scala – ma pattinare da una cromatica all'altra come scivolassero sul sapone e cercassero un posto dove fermarsi, a fine dirupo.
Per esempio, il futuro.
Eh beh, quello pretendeva una risposta.
Perché vedete, non è mica vera quella storia che a vent'anni si è stupidi davvero.
Balle.
A vent'anni ci si interroga ossessivamente sul senso di tutto. O almeno, quella volta lì era così, in quello scampolo di primavera in cui le mattinate passate sui libri sembravano sprecate. Forse per questo, per il rincorrersi di quelle domande troppo grandi per sperare in una risposta, o per stanchezza o per frustrazione, piano piano si finisce per dimenticarsene, di quella litania di dubbi per le quali si sta svegli la notte, con la cuffia in testa per non svegliare gli altri, e dentro la cuffia Like an Hurricane.

I am just a dreamer, but you are just a dream,
You could have been anyone to me.

E non eravamo sicuri, neanche pensandoci bene, che Neil Young stesse parlando di una donna. O di un uomo.
Perché l’incessante ripetersi di quella preghiera frustrata spiegami chi sono, spiegami dove vado, spiegami perché a poco a poco avrebbe lasciato il posto, a volte, non tanto alla rassegnazione - che per lo meno avrebbe il senso di un bilancio - ma molto peggio alla dimenticanza di sé. Che poi, mi spiegava il mio amico Roberto che aveva studiato – come me, ma lui le cose se le ricordava – tutto questo aveva a che fare anche con Pavese e col vizio assurdo e quelle cose lì.
Ma in quella primavera che – mi pare di ricordare – aveva il profumo degli aranci selvatici che crescevano lungo Corso Cavour, tutto questo pareva inammissibile. Allora si guardava oltre il crinale di domani, certi che il mondo sarebbe cambiato, e come no. Certi che era solo questione di aspettare il momento.
I tempi, lo sapevamo bene, stavano cambiando. Lo cantavano tutti, e se lo cantavano tutti voleva dire che era vero. Salvo che lo facevano, in quella primavera alla fine degli anni settanta, ormai da un decennio, senza che nulla accadesse, a provare che era tutto vero.
Renzo e Mauro loro sì, che sapevano suonare la chitarra. Mauro più di Renzo, a dir la verità,  con quella sua faccia tonda e paciosa e quella pelle olivastra e quei capelli di carbone da ragazzo del sud nato per caso, o per emigrazione, sulle rive del Golfo.
Avevano un gruppo, loro due, vattelapesca come si chiamava, e suonavano country, e soprattutto Neil Young, che a quei tempi, anche lui come tutte le altre rockstar, era giovane sul serio, e non solo di nome.
Oggi si direbbe che erano una cover band, ma allora erano solo dei tizi che suonavano Harvest come se fosse il disco.
Erano bravi, e i chitarristi negati come me, prigionieri degli accordi naturali, li guardavano con invidia e desiderio. Perché, anche se ci sarebbero stati ancora mille anni per provare scale pentatoniche e quinte diminuite, per il momento pendevamo dalle loro corde, e loro avevano in mano la chiave del mondo.
Renzo indossava un look pre-grunge – camicia a scacchi e maglietta - che sarebbe sopravvissuto alle mode e alla pioggia di Seattle. Girava per strada con la chitarra a tracolla, e suonava sempre. Dei due era quello che conoscevo meglio,  anche perché, per un certo periodo, abbiamo frequentato lo stesso giro di amicizie che si avviluppava attorno ad una radio locale.
Eravamo pazzi, oh, sì.
Si passavano serate seduti sul muretto a guardare i fari delle macchine che si rincorrevano sull'Aurelia verso la Foce e parlavamo di musica totale, che ancora oggi mi chiedo cos'è, di regia del collettivo e di musica commerciale e musica di lotta. E poi ci si chiede come mai uno viene su storto. Per forza.
In radio, Rossana era capace di fare una intera puntata sul “Tema della morte nelle canzoni di Branduardi”, e nessuno che si desse una grattatina, neanche di nascosto. E poi arrivava Roberto e le metteva su Bennato, e lei si arrabbiava.
Oh, sì, che eravamo pazzi, come no. Come tutti, prima o poi.
La radio. Si trasmetteva da uno stanzino alla base del campanile e si stava molto stretti, e la notte si lasciava aperta la porta di metallo che sigillava il pertugio per fare entrare aria, che si soffocava, là dentro. E in certe sere di quella primavera che scivolava veloce verso l’estate come uno slittino su un crinale innevato, avevamo fatto girare sul piatto Neil Young, così, come uno sberleffo al futuro.

Far across the moonbeam
I know that's who you are,
I saw your brown eyes
turning once to fire.


C’era un pianoforte, nell'anticamera che portava allo stanzino dove stavamo seppelliti a trasmettere, che ci ostinavamo a chiamare Radio Liguria 91. E Riccardo si lamentava che le cose migliori del giovane Nello erano per chitarra e lui, che aveva confidenza coi tasti neri e bianchi, non poteva suonarle. Così ripiegava su Antonello Venditti, che lo capirete bene, non era la stessa cosa.
Ma parlavamo di Mauro, e della sua chitarra. Una Gibson Les Paul, me la ricordo bene, o forse no, forse è uno scherzo del ricordo ma è comunque così che deve essere. Non lo conoscevo bene, Mauro, lo guardavo da lontano, ma era affascinante, con quel sorriso semplice e piano, nulla di costruito, con quei capelli corti, che allora erano una stravaganza, con quella faccia aperta da contadino calabrese che per qualche incomprensibile motivo si intonava perfettamente con le parole di un canadese scorbutico e capellone – come si diceva allora - scappato via da casa per approdare in California.
Parole nate lontano, quelle che cantava accompagnandosi con la sua chitarra, scritte sulle rive di un altro Golfo dall'altra parte del mondo, affacciato sul Tropico, che Mauro indossava con una naturalezza che spiazzava, senza capelli sugli occhi, senza sguardi torvi e senza lo spleen che - in quella primavera odorosa di mare e di idrocarburi - sembrava necessario per essere credibili.
Ma c’era qualcosa, una pace, una serenità, un appagamento, nel sorriso di Mauro, di cui già allora mi sentivo orfano. Capiamoci, quella primavera si infilava in un periodo in cui il rodimento di culo era all'ordine del giorno. In cui l’estraneità col mondo e la proclamazione della propria differenza, della propria sradicata dissociazione erano condizione necessaria.
Ma, lo avremmo capito poi, non sufficiente.
Mauro, invece, fatico a ricordarmelo senza sorriso. Era così ineffabile e lontano, nel mio ricordo. Eppure, in tutto questo, non ricordo di essermi mai chiesto fino in fondo quale fosse il segreto di quella pace che portava in giro per il mondo. Anche quando suonava. Non suonava rabbia, che pure, in quella primavera di allora come oggi, era sacrosanta. Suonava gioia.
Ecco, questo era nuovo. Così nuovo che mi sono dimenticato di chiedergli il perché.
Ma erano bravi, dio. Davvero bravissimi. E noi adoravamo Neil Young.
E così capitava che quando suonavano, Mauro, Renzo e il gruppo, di solito in qualche sala parrocchiale, era una specie di happening di provincia, provincia profonda, sonnacchiosa, esasperante e soffocante, ma lo avremmo saputo dopo.
E capita che ad un certo punto gira la voce, e girano dei manifesti scritti a mano, che dicono che loro avrebbero suonato al Don Bosco, un cinema parrocchiale, d’accordo, ma grosso, per una città piccolina, bastardo posto in cui cercare di crescere. Insomma, come si direbbe ora, un evento. Allora, era un “momento di ascolto”, come lo chiamava Vladimiro. Eravamo bravi, a dare alle cose nomi burocratici da verbale di condominio. Forse nell'illusione che diventassero più credibili se avevano vagamente un sapore di istituzionale. Salvo che poi li accoppiavamo colla sistematica negazione di qualsiasi istituzione.
Ora non mi ricordo più perché, ma ci pareva che in questo ci fosse un senso.
Dicevamo di Mauro, della sua chitarra, e del Cinema Don Bosco.
Quella sera c’eravamo tutti, intellettuali in scarpe da ginnastica, panciotti trapunti di spilline e vinili sotto braccio, perché come fai a separartene mentre fai una passeggiata in centro? E se non te ne separi per passeggiare, figurati se lo fai ad un concerto.
Di cover di Neil Young, per giunta. Quella sera le copertine di Zuma e After the gold rush si sprecavamo.
E però.
Quella sera, seduti composti sulle poltrone in velluto rosso del cinema, abbiamo per un attimo giocato a Woodstock. Anche se erano passati più di dieci anni da Woodstock, ma si sa, le cose in Italia arrivano in ritardo, figuriamoci a La Spezia. Anche se alcuni di noi erano lì – forse molti, a giudicare da come è andata poi – solo perché c’erano gli altri. 
Ma questa è un’altra storia ancora.
Ora raccontiamo questa, per come me la ricordo o per come me la voglio ricordare, e se qualcuno si ricorda meglio non me lo dica, se non è andata così.
Quella sera ad un certo punto della scaletta, Mauro dice che è arrivato il momento di “Like an Hurricane”. Oh, sì. L’uragano di quella elettrica solista che scandisce in note lunghe, tirate, un’angosciosa richiesta di qualcosa che ti travolga la vita.
Di qualcosa che te la cambi, per dire.
Nel mio ricordo, le luci del palco erano rosse, in quel momento. E tutto sembrava immerso in una pozzanghera sanguigna, e violenta. E sopra quella nuvola rossa in cui stavamo evaporando tutti, c’era la chitarra di Mauro, e quel grido angoscioso in cui ognuno di noi voleva riconoscersi, la richiesta di qualcosa che sparigliasse le carte, e che aprisse nuove porte e chiudesse i portoni, un vento nuovo che sapesse di mare e che gonfiasse le vele. Anche un uragano, purchè conducesse la barca in porti migliori.

You are like a hurricane
There's calm in your eye.

Mauro aveva un modo strano di suonare quel pezzo. 
Lo faceva senza contorcersi, senza dimenarsi, senza piegarsi su se stesso come percosso da una incomprensibile sofferenza – a meno che non fosse quella stessa di noi tutti, quel sogno di una cosa che non riusciva a diventare realtà. E poi, quel sorriso semplice, non ostentato, non buttato in faccia a nessuno. Non la rappresentazione del dolore, in quel momento, galleggiando su quel mare di luci rosse. Ma di altro. 
Qualcosa che ci eravamo scordati di chiedergli.

And I'm gettin' blown away
To somewhere safer
where the feeling stays.

Mi pare di ricordare che andò avanti a lungo, con un insistito duello di chitarre, e che invece che la solita bolgia da concerto – anche se quella era solo la nostra piccola e privata Woodstock di provincia al Cinema Don Bosco – ci fosse, in sala, un silenzio di cristallo. Fragile ed eterno. Come se in quella chitarra che si imbizzarriva e scalciava sopra la base ritmica, capricciosa come un cavallo pazzo, ci fosse qualcosa che veniva da molto lontano, e che ancora non sapevamo, perché ci eravamo dimenticati di chiederglielo.

..I want to love you but
I'm getting blown away…


E poi, come succede sempre, perché nessuna musica può durare in eterno, quel pezzo era finito, seguito dalla solita esplosione di applausi, e, per fortuna, non dalla fiaccolata di accendini, che a quei tempi non c’erano ancora. Non gli accendini, le fiaccolate.
Io questa parte non me la ricordo benissimo, e mi aiuta l’abitudine alla messa in scena. Ma la sostanza sì, quella ce l’ho impressa nel cervello, ora che è riemersa, dopo più di trent'anni, ancorata ad una canzone di Neil Young.

Chissà cosa fa Mauro adesso. Chissà se qualcuno sa dove sia, sa come trovarlo, sa se abbia ancora in viso quel sorriso inspiegabile, perché ci eravamo sempre scordati di chiederglielo.

In quel tripudio di applausi, Mauro era venuto a proscenio, con la sua maglietta per niente rock e il suo viso aperto da figlio del sud. Aveva la sua Les Paul a tracolla, e teneva le mani sul microfono, come se cercasse la forza per iniziare a dire qualcosa.
“Io…” - disse semplicemente, con una voce esitante, emozionata, ma anche qualcos'altro.  “Io volevo dirvi che questa è l’ultima volta che suono.”
Per la seconda volta, sulle poltrone in velluto rosso del cinema Don Bosco di La Spezia, si era fatto silenzio. Che significa, che vuol dire? Che è successo?
“Io… ho voluto suonare questo pezzo perché succede qualche volta che ti travolga un uragano. E quell'uragano può cambiarti la vita.”
Lo so, qualcuno potrebbe pensare che il dialogo sia un po’ banale, anche prevedibile. Eppure è così che andò, e non sempre i momenti speciali devono essere per forza imprevedibili.
Qualche volta è sufficiente che siano veri. E quello lo era, inutile girarci attorno.
“Io…” aveva proseguito Mauro, scivolando fuori dalla cinghia della chitarra e appoggiandola al supporto come se fosse l'ultima volta che lo faceva, e lo era, “io vado in trappa.”
In trappa. In clausura.
“Vedete, ho capito che questo uragano che mi ha colpito è più che sufficiente per essere felice. E non ho bisogno di nient'altro”
C’era, tra noi del pubblico, una ridda di reazioni contrastanti. Dal commosso all'infastidito.
Già, infastidito. Perché che cavolo, non sono affari suoi? Cosa c’entrano con la musica.
C’entrano, mi sento di dire oggi. C’entrano. Anche se io sono andato per un’altra strada, anche se quell'uragano che ha colpito lui mi ha mancato, o preso di striscio, oppure non c’è proprio.
Dopo quella sera Mauro – credo – regalò la chitarra. O per lo meno in una storia di quelle che si vedono al cinema sarebbe bello che sia andata così. Sarebbe bello che quella Gibson rossa l’avesse, per esempio, Renzo.
Ma quella sera andammo via borbottando, senza sapere se questo era bello o meno, che il rito prevedibile di quel concerto fosse stato interrotto così, per dare un annuncio che ci lasciò senza parole. O magari non è andata così. Magari quell'annuncio l’ha dato un’altra volta, e i ricordi si sono mescolati nella testa.
Ma l’uragano l’aveva travolto, questo è certo.

Chissà se invece non l’ha portata con sé, quella chitarra. Oppure no.
Chissà se a volte sente ancora Neil Young, oppure se lo canta nella testa, nelle prime luci dell’alba, mentre si avvia a cantare le lodi, o guardando le brume salire dalla terra, mentre lavora nell'orto, e probabilmente sorride.

Chissà.

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